I misteri (svelati) della Jungla Nera. Gli strangolatori del Gange e Ponson du Terrail di Stefano Nocentini

La prima parte di questo articolo è stata pubblicata sul Numero 35 de Ilcorsaronero.

Cita questo articolo attribuendolo correttamente al suo autore (licenza CC-BY NC)

Emilio Salgari fu un frequentatore assiduo di biblioteche: quella di Verona prima, quella di Torino poi. Consultava avidamente atlanti, enciclopedie, resoconti di viaggio; si documentava, prendeva appunti, annotava, immagazzinava informazioni che poi utilizzava per le descrizioni geografiche, antropologiche, zoologiche e botaniche che inseriva nei suoi scritti. Grazie all’opera meritoria degli studiosi salgariani, oggi sappiamo molto su quali fossero i testi scientifici e divulgativi che consultò a questo scopo.

Meno invece sappiamo delle sue letture nell’ambito della letteratura di fantasia. Sicuramente era un lettore vorace di romanzi di avventura, preferibilmente esotica, in particolare di autori anglosassoni e soprattutto francesi, come Boussenard e Jacolliot, tanto che imparò il francese così bene da tradurre due libri pubblicati in quella lingua.

In quei testi, Salgari non cercava soltanto svago: in qualche occasione, cercò il plagio. Rielaborò testi altrui in romanzi che pubblicò sotto pseudonimo: è il caso ad esempio di Le caverne dei diamanti (Donath 1899, sotto il nome di E.Bertolini), rielaborazione di King Solomon’s Mines (1885) di Henry Rider Haggard, e di Avventure straordinarie d’un marinaio in Africa (Donath 1899, sempre come E.Bertolini), da Les déserts africains (1878) di Armand Lapointe1. Ma soprattutto, vi cercava fonti d’ispirazione: nomi, spunti, idee brillanti, situazioni intriganti, particolari esotici, adatti a catturare l’attenzione del lettore, attorno ai quali sviluppare le sue trame.

Questo studio scopre le fonti di uno dei primi libri salgariani, intriso di un esotismo vivido e immaginifico che contribuì non poco a decretarne il successo: Gli strangolatori del Gange, apparso a puntate su “Il Telefono” di Livorno nel 1887 e poi, rielaborato, pubblicato in volume da Donath nel 1895 col titolo I misteri della Jungla Nera. Vogliamo documentare come Salgari importò abbondante materiale da due romanzi di uno dei massimi esponenti del feuilleton francese, Pierre Alexis Ponson du Terrail: Les ravageurse Un drame dans l’Inde, apparsi in Francia nel 1866-1867 nella serie Le dernier mot de Rocambole (L’ultima parola di Rocambole).

Ponson du Terrail (1829-1871) fu un prolifico scrittore di feuilleton, pubblicati su vari giornali parigini a puntate, prima di essere successivamente pubblicati in volume (anche i primi romanzi di Salgari furono pubblicati sui giornali a puntate, e in volume solo in un momento successivo). La sua fama è legata al personaggio di Rocambole, avventuriero coinvolto in peripezie e situazioni inverosimili (da cui l’aggettivo “rocambolesco”). Ma non è il personaggio, come vedremo, a fornire spunti a Salgari, quanto l’ambientazione esotica di quei feuilleton.

Les ravageursfu pubblicato in Italia da Sonzogno nel 1874 col titolo Gli strangolatori. Il libro narra una truce storia. I thug, gli strangolatori del titolo, rapiscono fanciulle vergini per consacrarle alla loro dea Khali. Se una consacrata ha rapporti con un uomo, viene condannata a morte. Due fanciulle, ambedue figlie di ufficiali inglesi, seguono questa sorte: la prima cerca di sottrarsi al suo destino sposando un ufficiale, e verrà uccisa; la seconda, la protagonista del libro, colpevole di aver baciato un uomo, sarà salvata in extremis da Rocambole quando sta per essere bruciata viva sul rogo.

Un drame dans l’Inde fu pubblicato in Italia da Sonzogno nel 1875 col titolo Un dramma nell’India. Il libro narra appunto di un dramma che si svolge nell’India durante la conquista inglese: un rajah, nemico acerrimo della dominazione britannica, è assediato nella sua capitale e ucciso da un usurpatore al soldo degli inglesi; ma il figlio più piccolo viene salvato da un seguace fedele e giura vendetta.

Vediamo ora in dettaglio come Salgari utilizzò i romanzi di Ponson du Terrail per Gli strangolatori del Gange.

I thug

Ponson du Terrail, Gli strangolatori, pp. 55,91:

‒ [I ribelli], che hanno sete di libertà e d’indipendenza, si rifugiano in fondo alle foreste, ricusano ogni sottomissione, ed hanno formato un’associazione terribile, mezzo politica e mezzo religiosa, la quale ha delle ramificazioni per tutto il mondo, in China ed al Giappone, in Africa ed in Europa, e che si chiama la società degli Strangolatori. Costoro hanno dichiarato una guerra spietata a tutti gli Europei, specialmente agli Inglesi.

Guai al piantatore che si avventura nei boschi per dare la caccia al tigre o all’elefante. Un thug, così si chiamano gli Strangolatori, gli salterà alla gola all’improvviso.

[…]

‒ In apparenza siamo i padroni. È vero, diss’egli, noi occupiamo le città, le fortezze, leviamo i tributi, decretiamo delle imposte e deponiamo dei re.

‒ Ebbene! Allora? Gli chiesi.

‒ Ebbene! Noi non siamo i padroni. Al disopra della nostra potenza, affermata in pien meriggio con brillanti reggimenti, con una bandiera che protegge delle ricche città, con delle flotte superbe che calcano l’Oceano indiano, al disopra di tutto ciò v’è una potenza occulta, misteriosa, un governo tenebroso, che tiene le sue assemblee in fondo alle vergini foreste, nei giuncheti impenetrabili, nei tempii in rovina, nei sotterranei sconosciuti, consacrati in passato alle loro cupe divinità. Questa potenza, questa associazione formidabile, che ha ramificazioni in tutto il mondo ed una agenzia principale a Londra, è quella degli strangolatori. Strani e fanatici, essi procedono sotto la bandiera d’una divinità delle tenebre, la deessa Kali, quel mostro dal viso di donna, che, secondo essi, si pasce di sangue umano.

‒ Ma in che cosa, sclamai io interrompendo sir Harris, in che cosa potete temere gli strangolatori per vostra figlia?

‒ Vi dico ch’essi l’hanno consacrata alla deessa Kali. […]

Ce ne sono tra i nostri domestici e tra i nostri soldati. È una rete che ci avvolge.

Emilio Salgari, Gli strangolatori del Gange, parte 1, cap. XVI:

I sotterranei di Raimangal, abitati dai feroci settari della mostruosa Kalì, erano vasti quanto mai, forse assai più dei famosi sotterranei di Mavalipuram e di Ellora.

Infinite gallerie solcavano il sottosuolo in mille direzioni, alcune tanto basse da non tenervisi in piedi un uomo, altre altissime e vaste, alcune diritte, altre tortuose che salivano a toccare la superficie pantanosa dell’isola o che scendevano nelle viscere della terra. Qua antri orribili, umidi, freddi, oscurissimi, da secoli e secoli disabitati; colà caverne, spelonche, pagode adorne di mostruose e bizzarre figure della mitologia indiana e ingombre di colonnati e più oltre pozzi che mettevano per dare la caccia al tigre o all’elefante. in sotterranei ancor più tenebrosi e forse ancora ignorati dagli strangolatori.

Emilio Salgari, Gli strangolatori del Gange, parte 2, cap. I:

‒ Hanno degli affigliati fra i nostri sipai, forse?

‒ La loro sètta è immensa, Bharata, ed ha degli affigliati in tutta l’India, nella Malesia e persino in China.

Corrispondenze: La mostruosa dea Khali (nelle traduzioni Sonzogno la mostruosa “deessa” Kalì, evidente francesismo da “déesse”; per inciso, le traduzioni Sonzogno abbondano di francesismi: “un tigre” anziché “una tigre”, “youma” anziché “yuma”, “Kougli” anziché “Kugli”, ecc.); la diffusione della setta fra i soldati indiani (sipai) e fino in “China”; la descrizione degli ambienti ove si riuniscono i thug che ispira chiaramente Raimangal: “…un governo tenebroso, che tiene le sue assemblee in fondo alle vergini foreste, nei giuncheti impenetrabili, nei tempii in rovina, nei sotterranei sconosciuti, consacrati in passato alle loro cupe divinità.”

Abilità dei thug

Ponson Du Terrail descrive l’abilità dei thug a colpire dovunque, persino nel cuore di uno stabilimento nemico, malgrado ogni precauzione.

Ponson du Terrail, Gli strangolatori, pp. 92-93:

‒ Gli strangolatori manifestano i voleri della loro terribile deessa con degli avvisi, che si trovano inchiodati al mattino sugli alberi dei passeggi pubblici o sulla porta dei monumenti. Quelli che annunciavano l’ultimo capriccio era così concepito: «I fanciulli e le fanciulle scelte dalla deessa Kalì saranno marcati del suo sigillo». E da quel giorno, chiunque aveva una figlia, la custodì come un tesoro, circondandola di mille precauzioni. Cure inutili! Ciò che la deessa voleva, doveva accadere!

Cionullameno, avevo sostituito i miei domestici e licenziato tutti quelli di origine indiana. Non avevo conservato che degli europei intorno a me, e siccome avevo domandato di tornare in Inghilterra, speravo che il mio richiamo sarebbe giunto in tempo.

Avevo circondato l’appartamento delle mie due figlie, prima d’una forte palizzata, poi di numerose sentinelle. Le nutrici passavano la notte nelle loro camere.

Un solo uomo poteva entrare sin là, ed era un luogotenente dei cipai, bianco come me e come voi, che portava un nome inglese, e mi serviva d’aiutante di campo.

Finalmente giunse il mio richiamo.

Dovevo imbarcarmi all’indomani; e, moltiplicando le precauzioni, mano mano che s’avvicinava l’ora della mia partenza, raddoppiai le sentinelle, e volevo passare io stesso quell’ultima notte, sdraiato sopra una culla, nella camera delle mie figlie.

Lottai a lungo contro il sonno, ma alla fine la testa mi si fece pesante e chiusi gli occhi.

Quando mi svegliai, il chiarore del giorno penetrava nella camera, e tutto dormiva ancora intorno a me. La nutrice era caduta in preda al sonno. Un gran levriere era sdraiato attraverso la porta. Tuttavia, una delle mie figlie, miss Anna, era sdraiata quasi ignuda, e vidi sulla sua spalla dei sacrilegi tatuaggi. Essa era marcata col sigillo misterioso della deessa Kalì.

Ella non aveva provato cosa alcuna, nulla udito: nessuno s’era svegliato, e persino il cane aveva taciuto. Eppure gli strangolatori erano entrati.

Emilio Salgari, Gli strangolatori del Gange, parte 2, cap. I:

‒ Una mattina, la popolazione di Calcutta era in preda ad un vivo sgomento. I thugs o Strangolatori che dir si voglia, avevano affisso su pei muri e sui tronchi d’albero dei manifesti, coi quali avvertivano gli abitanti che la loro dea chiedeva una ragazza per la sua pagoda. Senza sapere il perché fui preso da un grande tremito; presagii che una disgrazia mi stava vicina. Feci imbarcare la sera stessa mia figlia e la rinchiusi entro le mura del forte William, sicuro che i thugs non sarebbero giunti fino a lei.

‒ Tre giorni dopo, tu non crederai, la mia Ada si svegliava col tatuaggio degli strangolatori sul petto.

‒ Ah! – esclamò Bharat che lievemente impallidì-. E chi fu a tatuarla?

‒ Non lo seppi mai.

‒ Un thug era adunque penetrato nel forte?

‒ Così deve essere. […]

‒ Io che non aveva sino allora conosciuto che fosse la paura, quel giorno l’ebbi a provare. Compresi che mia figlia era stata scelta dalla mostruosa dea e raddoppiai la vigilanza. Mangiavo assieme, dormivo nella stanza attigua, avevo sentinelle che vegliavano dì e notte dinanzi alla sua porta. Tutto fu inutile; una volta mia figlia scomparve.

‒ Vostra figlia scomparve! Ma come?

‒ Una finestra era stata sfondata, gli strangolatori erano entrati e l’avevano rapita. Gli affigliati avevano versato un potente narcotico nel nostro vino e nessuno udì nulla, né s’accorse di nulla.

Corrispondenze: gli avvisi affissi dai thug sugli alberi e sui muri; il genitore che rinchiude la figlia in luoghi protetti e la mette sotto stretta sorveglianza, invano; le sentinelle alla porta, inefficaci; l’uso del narcotico; le sentinelle davanti alla porta; il sepoy traditore (cipai in Du Terrail, sipai in Salgari); il tatuaggio dei thug che nonostante tutto una mattina compare sul corpo della vergine (sulla spalla in Ponson Du Terrail, sul petto in Salgari), segno indelebile del suo destino.

La seconda vergine

Ne Gli strangolatori, Ponson du Terrail parla di una seconda fanciulla, anch’essa figlia di un ufficiale inglese, che i thug avevano a suo tempo consacrato a Khali e poi ucciso perché aveva amato un uomo.

Anche Salgari, ne Gli strangolatori del Gange, accenna a una seconda vergine, Marianna cugina di Ada, a suo tempo rapita ma non dai thug bensì dai pirati, ad accomunare le sorti di due disgraziate fanciulle.

Emilio Salgari, Gli strangolatori del Gange, parte 2, cap. I:

‒ È ben terribile la fatalità che pesa sulla mia famiglia! – esclamò l’infelice. Mia figlia rapita dai thugs, la figlia mia sorella da un pirata. È terribile! È spietata!

‒ Come? La figlia di vostra sorella rapita da un pirata? – domandò Bharata, che si passò la nera mano sugli occhi, strappando via una lagrima.

‒ Sì, disse il capitano tergendosi gli occhi. Avevo una nepote, una ragazzina bella come la mia Ada, figlia di mia sorella, e fu anch’essa rapita. Un pirata sanguinario, la Tigre della Malesia, se ne innamorò e la rapì. Povera Ada, povera mia nepote! La fatalità vi ha percosso entrambe.

‒ Come si chiamava vostra nepote?

‒ Marianna Guillou, figlia di lord Guillou.

‒ Fu rapita in India?

‒ No, a Labuan.

‒ Chi era questa Tigre della Malesia?

‒ Un pirata di Mompracem.

‒ È morta ora, questa vostra nepote?

‒ Nessuno lo sa. Il pirata, rapita che l’ebbe, scomparve e non se ne udì più parlare.

Questo passo dimostra che nel 1887 Salgari aveva già in mente di raccordare le vicende di Tremal-Naik con quelle di Sandokan, introdotte nel romanzo La tigre della Malesia, pubblicato a puntate su La Nuova Arena di Verona fra la fine del 1883 e i primi mesi del 1884, e poi pubblicato in volume nel 1900 da Donath con il titolo Le tigri di Mompracem. Questa saldatura fra le due vicende si compirà nove anni dopo col romanzo I pirati della Malesia, pubblicato da Donath nel 1896.

Il cognome della fanciulla, Guillou, è probabilmente un refuso tipografico, in quanto Marianna era già comparsa ne La tigre della Malesia col cognome Guillonk.

Il passo, che esprime una percezione errata da parte inglese della vicenda di Marianna, in realtà non rapita contro la sua volontà ma legata a Sandokan da un rapporto d’amore reciproco, sparirà nell’edizione Donath de I misteri della Jungla Nera del 1895, poco prima della pubblicazione de I pirati della Malesia.

I feticci dei thug

Ne Gli strangolatori, Ponson du Terrail descrive a più riprese i tre feticci dei thug:

  1. la statua di Khali dal volto mostruoso;
  2. il pesce rosso sacro nel bacino di marmo bianco;
  3. la statua di un serpente dalla testa di donna.

Ne Gli strangolatori del Gange, Salgari riprende i tre feticci dei thug alla lettera.

Emilio Salgari, Gli strangolatori del Gange, parte 1, cap. VI:

Uscita dalla pagoda, Ada, ancora commossa, col volto ancor bagnato di lagrime ma gli occhi sfavillanti di fierezza, era entrata in un piccolo salotto coperto da stuoie dipinte e decorato da mostruose divinità poco dissimili da quelle di già descritte. Il serpente dalla testa di donna, la statua di bronzo dal volto orribile e la vasca di marmo bianco col pesciolino rosso, non mancavano.

Il pesciolino

Ponson du Terrail, Gli strangolatori, pp. 182, 187, 188:

Ma l’oggetto più curioso forse era un bacino di marmo bianco collocato nel mezzo, pieno d’acqua sino all’orlo, e nel quale un grazioso pesce rosso andava e veniva, ora scendendo sino al fondo, ora risalendo a respirare un istante alla superficie.

[…]

‒ Padre mio, diss’egli, credete ch’io possa trionfare facilmente del francese, che vuole attraversare il servizio della dea?

Il pesciolino rosso nuotò più allegramente. Era la sua maniera di dare una risposta favorevole. […]

‒ Allora, disse freddamente sir Giorgio Stowe raggiante, guai a colui che ha osato proporle di sposarla!

Così dicendo, uscì dalla pagoda.

Emilio Salgari, Gli strangolatori del Gange, parte 1, cap. V:

Un altro oggetto strano era una vaschetta di marmo bianco, incastonata nelle lucenti pietre del pavimento. Era colma di limpidissima acqua e dentro vedevasi nuotare un pesce di un bel giallo oro, piccolo e che somigliava assai ad un pesce mango.

Tremal-Naik non aveva mai visto nulla di simile. Egli si era fermato dinanzi alla mostruosa divinità e la contemplava con un misto di stupore e di paura.

Chi era mai quella sinistra figura contornata di cranii e ornata di mani e braccia rnozze? Perché dinanzi ad essa si versava sangue umano? Che cosa significava quel pesciolino dorato nuotante in quella bianca vaschetta? Quale relazione avevano quei due strani simboli coi feroci uomini che inseguivano e strangolavano i loro simili?

Emilio Salgari, Gli strangolatori del Gange, parte 1, cap. VI:

L’indiano afferrò la povera Ada fra le braccia e usci. Suyodhana, o meglio il Figlio delle sacre acque del Gange, aspettò che ogni rumor di passi fosse cessato, poi s’inginocchiò dinanzi alla vaschetta di marmo nella quale guizzava il pesciolino dorato.

‒ Padre mio, diss’egli.

Il pesciolino che nuotava in fondo al bacino, a quella voce venne a galla.

‒ Padre mio, proseguì l’indiano. Un uomo, un miserabile, ha alzato gli occhi sulla vergine della pagoda. Quest’uomo è in mano nostra; vuoi che viva o che muoia?

Il pesciolino si sprofondò nuotando con vivacità. Suyodhana s’alzò di scatto; un sinistro lampo balenò nei suoi sguardi.

‒ La dea l’ha condannato, diss’egli con voce cupa. Quell’uomo morrà!

Corrispondenze: il bacino di marmo bianco in cui nuota il pesce; il pesce, che il capo dei thug ritiene la reincarnazione di suo padre; la provenienza del pesce dal Gange; la domanda posta al pesce, che riguarda la vita o la morte dell’uomo che ama la vergine; l’oracolo che si ottiene interpretando i movimenti del pesciolino; il nuoto vivace che significa “morte”. Salgari elenca una serie di particolari che sono esattamente gli stessi che in Ponson Du Terrail; la derivazione è evidente e quasi letterale.

La nota che il pesce “somigliava assai ad un pesce mango” è originale di Salgari; che razza di pesce sia questo “mango” è uno dei tanti misteri salgariani. Come è noto, il mango (mangifera indica) è una pianta arborea originaria dell’India e coltivata in tutte le zone tropicali per il suo frutto, che si chiama mango anch’esso. Il pesce alla salsa di mango è una squisitezza culinaria.

Curiosamente, Salgari cambia il colore del pesce da rosso a un più esotico dorato o giallo-oro, ma, in una frase della parte 1 cap. VI, si dimentica di correggere e il pesciolino resta rosso come nell’originale: «Il serpente dalla testa di donna, la statua di bronzo dal volto orribile e la vasca di marmo bianco col pesciolino rosso, non mancavano».2

Le armi dei thug

Ponson du Terrail, Gli strangolatori, p. 80:

Gurhi aveva una corda attorno al corpo. Era il suo laccio di strangolatore. Inoltre, era munito d’un revolver di fabbrica inglese e d’un pugnale, sulla cui lama si vedevano incisi dei segni bizzarri. […]

Anche Osmanca, come il primo, portava un laccio a nodo scorsoio, un pugnale ed un revolver.

Emilio Salgari, Gli strangolatori del Gange, parte 2, cap. V:

Tremal-Naik sciolse il laccio che portava stretto attorno al corpo, nascosto dal dubgah, e glielo diede.

‒ Mettiti presso alla porta, gli disse, estraendo il pugnale. Il primo che appare strozzalo; io scannerò gli altri.

Negapatan ubbidì prendendo il laccio nella mano dritta, curvo indietro, pronto a strangolare la vittima. Tremal-Naik si mise di fronte a lui, dietro allo stipite della porta, col pugnale alzato.

Emilio Salgari, Gli strangolatori del Gange, parte 1, cap. XII:

Il pugnale era di acciaio brunito, d’un metallo che lasciava vedere le venature, d’una forma particolare e con delle strane incisioni sulla lama.

Corrispondenze: il laccio da strangolamento che viene tenuto avvolto intorno al corpo; il pugnale come seconda arma (in Ponson Du Terrail, sulla lama del pugnale «si vedevano incisi dei segni bizzarri»; in Salgari, il pugnale presenta «delle strane incisioni sulla lama»); il «revolver di fabbrica inglese», che in Salgari non c’è, forse perché non abbastanza esotico.

La punizione delle consacrate a Khali

Ponson du Terrail, Gli strangolatori, p. 254:

‒ Ogni donna consacrata alla deessa Kalì è condannata a una eterna castità.

‒ Lo so, Luce.

‒ S’essa elude la sorveglianza esercitata sopra di lei, se le labbra d’un uomo sfiorano le sue labbra, quella donna deve morire.

‒ Qual genere di morte ordinate per Gipsy, Luce?

‒ Il rogo.

Emilio Salgari, Gli strangolatori del Gange, parte 1, cap. XIII:

‒ Avanti ora. Qual pericolo corre? Di’, su, tutto.

‒ Una condanna pesa… su Ada… Kalì l’ha dannata a morire vergine… Il tuo padrone l’ama… essa lo riama… Ebbene, uno dei due… bisogna che muoia… M’avevano qui… mandato per assassinarlo… Ho mancato al colpo…

‒ Avanti! Avanti! esclamò Tremal-Naik, che non perdeva sillaba.

‒ Non mi vedranno… indovineranno la sorte che… mi é toccata… sapranno che tu… sei ancor vivo… Ebbene, uno dei due… bisogna che muoia… Ada è in loro… mano… morrà… abbruciata… Kalì l’ha condannata.

Corrispondenze: la vergine consacrata a Khali che ha amato un uomo deve morire sul rogo.

Il rogo purificatore

Ponson du Terrail, Gli strangolatori, p. 296:

Tutti portarono delle fascine resinose sulle spalle e le deposero ai piedi della statua.

Le donne avevano ripigliati i loro canti e le loro danze. Gli uomini preparavano il rogo.

Emilio Salgari, Gli strangolatori del Gange, parte 1, cap. XV:

Cento indiani carichi di legna irruppero nella caverna e rizzarono, di fronte alla dea, ai piedi di un colonnato, un gigantesco rogo, versandovi sopra torrenti d’olio profumato.

Un drappello di devadasi si slanciò, piroettando, nella caverna, facendo tintinnare campanellazzi e cerchietti d’argento e circondò la dea di bronzo, la mostruosa Kalì. Erano trenta superbe ragazze di forme provocanti, con occhi neri e scintillanti come quelli dei serpenti, con lunghi capelli neri cadenti sulle nude e abbronzate spalle, adorne di fiori di sciambaga, di anella di argento, di diamanti.

Il loro abbigliamento era sfarzoso, leggiadro, il più acconcio che immaginare si possa a far spiccare la bellezza e le grazie. Corazze sottilissime d’oro tempestate di diamanti racchiudevano i loro petti strofinati di odorosissima polvere di sandalo; corte gonnelline di seta rossa pendevano sotto la larga fascia di cachemire che stringeva i loro fianchi e pantaloni bianchi, pure di seta, scendevano fino al collo del piede. Anelli d’argento e campanellini d’egual metallo portavano alle braccia e alle gambe e leggieri veli coprivano le loro teste.

Al suono dell’hauk e dei funebri tarè cominciarono, attorno alla dea Kalì, una danza scapigliata, facendo volteggiare in aria i loro veli di seta azzurra o rossa, ora con trasporti amorosi, ora supplichevoli, ora languenti, accompagnati da sguardi scintillanti, provocanti, irresistibili.

Corrispondenze: sia in Ponson du Terrail sia in Salgari, nel momento in cui la vergine consacrata e caduta viene condotta al rogo, appare la stessa suddivisione dei compiti: gli uomini portano la legna da ardere e preparano il rogo, mentre le donne danzano.

Salgari dilata la scena a dismisura introducendo gli elementi esotici a lui cari: una scena di balletto orientale degna di un film hollywoodiano, con l’hauk, i tarè, e soprattutto le devadasi, trenta superbe ragazze di forme provocanti, “con occhi neri e scintillanti come quelli dei serpenti”, ben fornite di campanellazzi, di fiori di sciambaga, di anelli d’argento, di corazze d’oro tempestate di diamanti.

La yuma

Ponson du Terrail descrive la yuma (youma nel testo francese, ripreso anche nella traduzione Sonzogno), la limonata che scioglie la lingua irresistibilmente: chi ne beve è costretto a una parlantina irrefrenabile e delirante, in uno stato di esilarata esaltazione. Gli ingredienti sono succo di limone, un grano d’oppio e le foglie triangolari di una pianta detta appunto youma.

Ponson du Terrail, Un dramma nell’India, pp. 95-96:

‒ L’indiano ferito, prosegui Nadir, stende sulla sua ferita un balsamo, il quale non é altra cosa, fuorché il succo spremuto da una pianta che noi chiamiamo youma, parola che vuol dire lingua di serpente. È con questo balsamo che ti ho guarito.

‒ Ah! E cosa ne vuoi concludere?

‒ Ebbene! rispose Nadir, il miscuglio del limone che rinfresca, dell’oppio che addormenta e del youma che cicatrizza le ferite, formano una bevanda la quale produce degli effetti singolari. Colui che ne inghiotte mezzo bicchiere, non tarda a cadere in balia d’una specie di allegria febbrile, la quale si manifesta con una grande esuberanza di gesti e con intemperanza di parole. L’uomo più chiuso in sé, l’intelligenza più meditabonda non vi possono resistere. Per quanto profondamente un secreto sia sepolto nel fondo del cuore, il beveraggio di cui ti parlo lo fa salire sull’istante alle labbra.

[…]

Nadir li pose in un piccolo mortaio che serviva a pilare il riso e si trovava in casa, indi si pose a pestarli mescolando loro le foglie di youma ed il grano d’oppio, e versando lentamente nel mortaio un bicchier d‘acqua. Vidi allora formarsi un bel liquore roseo, ch’egli versò in una tazza di cocco.

Hassan guardava. istupidito. Nadir gli presentò la coppa e gli disse:

‒ Bevi!

Hassan prese la coppa e la vuotò d’un fiato, colla duplice ansietà. dell’uomo che ha sete e del fanciullo cui manca la ragione.

Ora, mi disse Nadir, aspettiamo.

Dopo aver bevuto, Hassan cadde in una specie di raccoglimento che assomigliava all’estasi. Poi, a poco a poco, il di lui viso s’imporporò, i di lui occhi cominciarono a brillare, e parole incoerenti gli uscirono dalle labbra.

Emilio Salgari, Gli strangolatori del Gange, parte 1, cap. VII:

Stracciò un pezzo del kurty ed arrestò l’emorragia che poteva essere fatale al povero ferito. Ora si trattava di avere un po’ d’acqua e alcune foglie di youma, da spremere sulla piaga per affrettare la cicatrizzazione. […] Non corse molto che trovò alcune pianticelle di youma, volgarmente chiamate lingua di serpente, il cui succo è un balsamo prezioso per le ferite.

Emilio Salgari, Gli strangolatori del Gange, parte 2, cap. VI:

‒ Si tratta di farlo parlare, capitano? chiese Nysa. Me ne incarico io.

‒ Tu?

‒ Basterà dargli da bere una limonata.

‒ Una limonata! Tu sei pazzo, Nysa.

‒ No, capitano! esclamò Bharata. Nysa non é pazzo. Ho sentito anch’io parlare di una limonata che fa sciogliere la lingua e alla quale l’uomo più chiuso, l’intelligenza più meditabonda non resistono.

‒ È vero, disse Nysa. Con poche goccie di limone mescolate col succo della youma e una pallottolina d’oppio si fa parlare qualsiasi persona. […]

Pochi istanti dopo ritornava con tre grandi tazze di limonata poste sopra un bellissimo tondo di porcellana cinese. In una aveva di già fatto sciogliere la pallottolina d’oppio e il succo della youma che dovevano sciogliere la lingua al disgraziato cacciatore di serpenti. […]

‒ Devi essere stanco. Bevi questa limonata che ti farà bene.

Così dicendo gli porse la tazza che Tremal-Naik vuotò tutta d’un fiato.

‒ Dimmi un po’, Saranguy, ripigliò il capitano, credi tu che ci sieno dei thugs nella foresta?

‒ Non lo credo – rispose Tremal-Naik.

‒ Non conosci nessuno di quegli uomini?

‒ Io conoscere… di quegli uomini! – esclamò Tremal-Naik.

‒ Potrebbe darsi, tu che hai vissuto molto tempo fra i boschi.

‒ Non è vero.

‒ Eppure mi dissero che ti hanno visto parlare con un indiano sospetto.

Tremal-Naik lo guardò senza rispondere. I suoi occhi a poco a poco si erano accesi e risplendevano come due carboni infiammati, la sua faccia era diventata d’una tinta cupa e i lineamenti gli si erano alterati.

‒ Che hai da dire? – domandò il capitano Macpherson, con accento lievemente beffardo.

Thugs! – balbettò il cacciatore di serpenti, agitando pazzamente le braccia e rompendo in uno scroscio di risa. – Io parlare con un thug?

‒ Attento, mormorò Bharata all’orecchio del capitano. La limonata fa il suo effetto.

‒ Orsù, che ne dici? – incalzò Macpherson.

‒ Sì, mi ricordo, ho parlato con un thug sull’orlo della foresta. Ah!… ah!… Ed essi credevano che io cercassi Negapatan. Che stupidi… ah! ah!… Io inseguire Negapatan? Io che tanto ho lavorato per farlo scappare… ah! ah!…

E Tremal-Naik, in preda ad una specie di allegria febbrile, irresistibile, rideva come un ebete, senza più sapere che cosa dicesse.

Corrispondenze: la limonata che scioglie la lingua; la pianta che ne costituisce l’ingrediente base; la grafia youma, ereditata dal testo francese, lasciata inalterata nelle traduzioni Sonzogno e copiata da Salgari; il significato della parola youma, che vorrebbe dire lingua di serpente, particolare ripreso da Salgari alla lettera; la composizione della bevanda (foglie di yuma, oppio e limone); il dettaglio che la yuma da sola funge anche come balsamo per le ferite, per arrestare l’emorragia e affrettare la cicatrizzazione; i terrificanti mutamenti indotti nell’assuntore della bevanda, che cambia il colore del viso, i cui occhi diventano accesi e brillanti, e non è più conscio di quello che dice; la frase copiata pari pari «l’uomo più chiuso in sé, l’intelligenza più meditabonda non vi possono resistere».

Oltre a quelli citati, ne Gli strangolatori del Gange si trovano parecchi altri spunti copiati da Un dramma nell’India. Per esempio, uno dei protagonisti di Ponson du Terrail si chiama Kougli (nel testo francese e nella traduzione Sonzogno), nome riutilizzato da Salgari, sempre in versione francesizzata (-ou), per uno dei thug de Gli strangolatori del Gange. E in un episodio un individuo viene fatto confessare bruciandogli i piedi, idea ripresa da Salgari ne Gli strangolatori del Gange per la tortura di Manciadi.

È interessante notare che Un drame dans l’Inde, che narra la storia di un rajah, nemico acerrimo della dominazione britannica, assediato nella sua capitale e ucciso insieme alla sua famiglia da un usurpatore al soldo degli inglesi, mentre il suo figlio piccolo viene salvato da un seguace fedele e giunto alla maturità giura vendetta, fornì a Salgari anche uno spunto per il personaggio di Sandokan.

Concludendo: non c’è dubbio che Salgari scrisse Gli strangolatori del Gange (pubblicato nel 1887) ricalcando, o meglio plagiando, i romanzi di Ponson du Terrail, verosimilmente letti nelle edizioni Sonzogno del 1874-1875. Ma questa doverosa precisazione non sposta il giudizio sui rispettivi valori letterari: i feuilleton del francese sono datati e ormai caduti nell’oblio, mentre I misteri della Jungla Nera resta un romanzo affascinante e sempreverde, che ha incantato migliaia di lettori e ancora ne incanta.


1 La paternità del Lapointe è stata brillantemente scoperta dal noto studioso salgariano Vittorio Sarti.

2 Segnalato dal noto studioso salgariano Vittorio Sarti.